In questo blog mi sono trovata quasi sempre a parlare della Bergamo “Bianca”, la città perbene. Eppure accanto al perbenismo ufficiale, anche a Bergamo troviamo tutta una serie di desideri nascosti e inconfessabili, incontri clandestini e le vie del sesso che si trovano in ogni grande città. Dal Cinquecento fino al 20 febbraio del 1958 (giorno in cui entrò in vigore la Legge Merlin che chiuse definitivamente le case di tolleranza) anche la capitale orobica aveva quello che oggi definiremmo il Sex District di Bergamo (o Red Light District, se vogliamo continuare a dirlo all’inglese). Anzi, a dir la verità, Bergamo ebbe nei secoli più quartieri a luci rosse dentro e fuori le mura di Città Alta: un dedalo di strade e stradine portavano alle case chiuse o alle strade del piacere seguendo le mode e le richieste del mercato. Tutto questo fino alla Legge Merlin, entrata in vigore il 20 febbraio 1958. E a poche ore dall’anniversario della legge 75/1958 ho deciso di raccontare la storia di Bergamo a luci rosse.
Il primo bordello pubblico di Bergamo risale al Cinquecento ed era di proprietà comunale, dato in appalto a privati con contratto quinquennale o settennale. Nei secoli seguenti in Città Alta si aggiunsero altri postriboli (o casini o case di tolleranza): famosi quelli di via San Lorenzo, Via San Salvatore e via Mayr. E in Bergamo Bassa? Troviamo la Casa del Pecat, la Villa delle Rose e il Casino dei Nobili, quest’ultimo rimasto in attività fino a fine Ottocento. Ma non solo. A Bergamo le libere professioniste del peccato continuarono a esercitare clandestinamente sulla strada o nelle case di tolleranza illegali.
Ma andiamo con ordine.
Ecco quello che troverete in questo articolo
La storia di Bergamo a Luci Rosse: il Cinquecento
Se volete sapere dove si trova, basta andare in Piazza Vecchia e seguire la via che costeggia la chiesina di San Michele All’Arco, accanto alla Biblioteca Angelo Mai. Nello spiazzo che oggi è un parcheggio per auto e che spazia tra Via Rivola e la scaletta che scende in Via Tassis, si trovata il primo nucleo del Red Light District bergamasco, il Quarterolo di Bergamo Alta.
L’esercizio al chiuso nel Locho Publico in via Rivola
Con il nome di locho publico si indicava il pubblico bordello di proprietà comunale, che dal 1497 aveva imposto di confinare le prostitute “regolari”, fino ad allora libere professioniste sparse per le case e le strade della città, in un luogo chiuso e nascosto alla vista. Tra il 1505 e il1554 la sua presenza viene confermata da alcuni abitanti che indicano nei documenti scritti la loro abitazione come «appresso il bordel» o «in postribulo».
Sebbene dovesse essere “nascosto” si racconta che il Locho publico avesse anche una sorta di anticamera dove si svolgevano le pratiche amorose più veloci, ma non per questo meno rumorose. E fu così che nel 1561 il bon ton cittadino non ce la fece più a reggere e, per sopravvenuta decenza, si obbligò il parroco della chiesetta a tener chiusa la porta che guardava versus pratum pustribuli, almeno durante le funzioni religiose, «per evitare che sospiri e lamenti disturbassero il corretto e mesto andamento delle funzioni».
L’esercizio “a cielo aperto” in via della Boccola
Il Comune era dunque proprietario dello stabile in cui si trovata il “bordello cittadino”, e lo consegnava in appalto ai privati con un contratto della durata di cinque o sette anni. Eppure non sempre gli affari andavano a gonfie vele, né la gestione risultava essere sufficientemente oculata: ai primi del Cinquecento si legge infatti nel libro dei debiti del Comune che un certo Francesco Licini, proprio a causa di una conduzione allegra e poco avveduta, venne costretto a recedere dal contratto quinquennale dopo soli due anni e a riconsegnare l’immobile con relative occupanti al Comune.
Ci fu quindi una nuova gara d’appalto per la gestione del bordello, ma solo nel 1505, e così nel frattempo le prostitute dovettero esercitare a cielo aperto: si appostarono presso la fontana in via della Boccola, lungo una via di alto transito in entrata e in uscita. Pare che anche lì, però, non trovarono pace e si scontrarono con la decenza bergamasca, che voleva preservare la vista e il decoro delle donne cosiddette onorate, che fossero nobili o popolane o inservienti delle prime, intimorite da quella scomoda e oltraggiosa presenza. Con la nuova gestione, le donne di malaffare poterono nuovamente tornare nel chiuso di San Michele, sotto pena di frusta, berlina e bando dalla città.
Dall’abito al soprannome: come si riconoscevano le prostitute
La legge prevedeva per le professioniste del sesso obblighi di riconoscibilità, diversi per ogni epoca storica, anche se venivano frequentemente disattesi. In epoca viscontea, ad esempio, l’abbigliamento delle prostitute consisteva in una mantellina bianca con l’effige di una scrofa o di una vacca. Durante il periodo veneziano, le ragazze che lavoravano nei postriboli dovevano indossare una mantellina gialla in fustagno. Il giallo era un colore negativo, legato al tradimento di Giuda e al popolo ebraico, così come accadeva a Venezia, dove sin dal Quattrocento le prostitute dovevano portare fazzoletto e calze gialle. E non è un caso se la “casa coi comignoli” avesse i muri dipinti di giallo.
Anche se la legge non permetteva l’esercizio della libera professione, di fatto la tollerava; negli archivi cittadini, suddivisi per vicinia, si rinvengono curiosi nomi femminili privi del cognome o della qualifica professionale, ma simpaticamente affiancati da vivaci soprannomi che paiono parlare per loro: la Casalenga, la Semperbona, la Greca, la Franzona de la platea, la Maria dicta bonina, la Barboina, la Afra, la Catarina dicta longona, la Scamfarlina.
Storia di Bergamo a Luci Rosse: le “case chiuse” diventano legali
La storia di Bergamo a luci rosse ad un certo punto si intreccia con la legge del Regno d’Italia. Infatti, anche a Bergamo, i bordelli vennero istituiti e regolamentati definitivamente a partire dal 1859, quando Camillo Benso, conte di Cavour, autorizzò l’apertura di case controllate dallo Stato per esercitare la prostituzione in Lombardia. I bordelli, allora, venivano anche chiamati “case di tolleranza” poiché grazie al decreto di Benso venivano, appunto, tollerate dallo Stato.
Quando si parla delle case di tolleranza, spesso le correnti di pensiero sono due: una glorifica, l’altra denuncia. Da una parte le signorine ammiccanti, l’arte della seduzione, il luogo sicuro e caldo dove far flanella o lustrarsi gli occhi; dall’altra le malattie veneree, gli abusi, lo strozzinaggio che incatenava le prostitute al mestiere. Sono entrambe facce della stessa medaglia e vanno descritte nella loro interezza per poter comprendere meglio il fenomeno a partire da quando ha cominciato a esistere: questo percorso si apre sulle antiche civiltà e arriva alla legge Merlin del 1958, focalizzandosi soprattutto sul funzionamento dei postriboli, sui regolamenti e su cosa significasse davvero fare la vita.
Le “case chiuse” a Bergamo e nel resto d’Italia controllate dallo Stato
Nel 1860 lo Stato ebbe il compito di fissare persino i prezzi degli incontri che furono uguali in ogni parte del Regno. Il tariffario era esposto nella sala d’attesa e contemplava “impegni normali”, “impegni doppi” o impegni orari che potevano coprire fino a mezza giornata. Erano previste anche agevolazioni particolari per specifiche categorie di clienti quali militari, studenti e “giovanotti di primo pelo”.
Nel 1888 si occupò nuovamente della questione il monarchico Francesco Crispi, facendo approvare una legge che vietava di vendere cibo e bevande, o di organizzare feste e balli all’interno dei bordelli, e proibiva la loro apertura in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole.
I bordelli dovevano rimanere il più possibile anonimi e discreti, anche le persiane dovevano obbligatoriamente rimanere chiuse per legge, e fu proprio in questo periodo che vennero dunque denominati “case chiuse”. Rimasero legali, nonostante i numerosi dibattiti che si accesero intorno alla loro chiusura, fino al 1958, anno dell’approvazione della “legge Merlin”.
Le tenutarie dei bordelli e il numero delle prostitute “ufficiali” a Bergamo
Nel periodo che va dall’Unità d’Italia alla prima Guerra Mondiale, il fenomeno della prostituzione a Bergamo non assunse mai proporzioni rilevanti. Come nel resto d’Italia, i postriboli cittadini erano condotti quasi sempre da donne (nel 1892 a Bergamo quattro tenutari su cinque erano di sesso femminile) che godevano di un potere assoluto sulle loro lavoranti: le sfruttavano senza remore, le privavano dei guadagni e, per completare l’opera, le gravavano di debiti.
Il lavoro di una prostituta era pagato a “cottimo”: più lavorava, più guadagnava. Una ragazza giovane e in buona salute arrivava a guadagnare anche 40 “marchette” al dì, gettoni in ottone forato al centro consegnati alle donne dalla tenutaria del bordello direttamente in camera, prima della consumazione. La quantità di marchette era proporzionata alle prestazioni fornite: a fine turno, le ragazze di vita si presentavano alla cassa per cambiarle in moneta contante.
Il numero delle prostitute «patentate» (26, nella maggior parte si trattava di donne che provenivano dai filatoi)) e delle case di tolleranza legalizzate in città restò, inoltre, sempre basso, ponendo Bergamo fra le ultime province del Regno nelle classifiche.
Le ragazze venivano fatte girare tra le case di tolleranza della città in gruppetti chiamati Quindicina: rimanevano infatti in un luogo per circa 15 giorni, mentre le più brave e le più fidate potevano rimanere anche diversi mesi. Questa turnazione era stata pensata per evitare che qualche cliente meno avveduto si innamorasse e decidesse di sposarsene una causando perdita di denaro per il proprietario del bordello.
I controlli sanitari nelle case di tolleranza nell’Ottocento
Le ragazze che lavoravano nei bordelli erano schedate sia a livello amministrativo che sanitario: un medico le visitava due volte a settimana e tutte le sere agenti in borghese si presentavano per controllare che tutto fosse in ordine. Lo Stato incassava le tasse sulle concessioni delle licenze e sui ricavi delle prestazioni offerte.
In virtù del regolamento Cavour, infatti, le ragazze che lavoravano nei bordelli erano controllate periodicamente da un medico che esercitava la professione presso l’ Ufficio sanitario (istituito all’Ospedale Maggiore) per il nucleo di medici visitatori, coordinati da un ispettore sanitario, e da un gruppo di agenti di polizia, guidati da un ispettore. I primi avevano il compito di procedere alle visite delle prostitute (due alla settimana) sia in loco che a domicilio, i secondi invece si occupavano di questioni amministrative, poliziesche e giudiziarie.
Il sistema di sorveglianza medico-poliziesca, farraginoso e sostanzialmente vessatorio nei confronti delle donne, venne però abolito nel 1888, con l’entrata in vigore del regolamento Crispi: i medici visitatori scomparvero e i controlli sanitari sulle prostitute cominciarono a essere eseguiti da medici fiduciari.
Altro capitolo è, invece, quello della prostituzione clandestina che veniva esercitata presso la Fiera o in via San Giovanni e in via San Tomaso, in case di tolleranza illegali che erano sempre sfuggite alla sorveglianza.
Storia di Bergamo a luci rosse: dov’erano le Case Chiuse?
Il numero delle case di tolleranza (o case chiuse) a Bergamo rimase pressoché identico fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. In Città Alta , in Borgo San Lorenzo in particolare, avevano sede tra le quattro e le sei imprese postribolari mentre altre due realtà operavano in Città Bassa, nella zona di Porta Osio. Era infatti utile che tale attività fosse ben distribuita in città, per non creare folla e accontentare tutti indistintamente.
Le ultime case chiuse rimasero come in ogni altra parte d’Italia attive fino al 1958, anno in cui entrò definitivamente in vigore la Legge Merlin. Fino ad allora i loci publici sul colle più frequentati erano tutti dislocati lungo la Via San Lorenzo ai civici 18, 20 e 22 e in via San Salvatore, ma sul finire dell’Ottocento se ne aggiunse una in via Mayr.
La Casa coi Comignoli Via San Lorenzo
La casa di tolleranza più famosa di Bergamo è sicuramente quella che tutti fotografano da Piazza Mercato del Fieno che si trova all’incrocio di via San Lorenzo con via Tassis.
Si racconta che in via San Lorenzo, le case chiuse fossero tre e l’ordine dei numeri civici giustificasse la bellezza delle ospiti. Chi saliva da Bergamo bassa a Bergamo alta per godere delle varie prestazioni, se voleva il meglio doveva superare il civico 18, passare davanti al 20 e arrivare al 22.
Al 22 si trovava infatti la casa chiusa con più stelle, quella di lusso, con le donne migliori. Anche l’edificio era più lussuoso. Si narra che i comignoli in mattone unici in tutta Città Alta per numero e foggia non avessero solamente una funzione decorativa, ma che avessero una funzione pratica legata al business. I comignoli corrispondevano alle stanze occupate dalle ragazze di vita: non fumavano quando la ragazza era in attesa di qualcuno che “attizzasse il focolare” , e fumavano quando la ragazza era impegnata con un cliente. Si narra che questa casa chiusa fosse provvista anche di un’entrata più appartata per “nobili e sacerdoti”.
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La Casa del Pecat in via San Salvatore
In Bergamo alta c’era un altro edificio maliziosamente denominato Casa del pecat fino agli anni Settanta del secolo scorso e attualmente residenza di numerose famiglie per bene della città: è lo stabile ubicato in Via San Salvatore, angolo via Arena. Non se ne conosce la vera destinazione (bisca, postribolo, contrabbando), ma forse qualche anziano signore bergamasco potrebbe sicuramente raccontarci di più.
La Casa di via Mayr che fece crollare la richiesta di case in affitto
Ad un certo punto, si aggiunse una nuova casa in via Mayr. Risse, schiamazzi e scandali erano all’ordine del giorno nel Borgo di Città Alta con le cronache dell’epoca (1880) che sottolineavano come «queste femmine disonorate turbavano la pace anche dei morti», facendo riferimento ai cortei funebri che, quando accompagnavano al cimitero i defunti, transitavano proprio davanti a questo «schifoso lupanare».
Ma la convivenza con gli abitanti della zona non era per niente facile e, come oggi accade, la vicinanza con i luoghi della prostituzione faceva crollare il valore delle case indispettendo non poco i proprietari.
«Nessuna famiglia onesta – si legge ancora – vorrà prendere a pigione una casa in quelle vicinanze, sapendo che quelle sgualdrine danno spettacolo di sé a tutte le ore, e di notte un orrendo baccanale è per tutta la contrada».
Le altre Case di Tolleranza in Città Bassa e sui Colli
I bergamaschi di Città Bassa dovevano comunque essere assidui frequentatori dei bordelli perché erano attive anche la Casa del Pecat, la Villa delle Rose e il Casino dei Nobili, quest’ultimo rimasto in attività fino a fine Ottocento.
Villa delle Rose in via Serassi. Nell’attuale via Serassi, vicino al Cimitero, dove oggi Villa delle Rose è un cheto e serafico Centro per Anziani dove si gioca a carte e si organizzano gite culturali e vacanze al mare, un tempo pare fosse luogo dedito ai piaceri della carne. La scritta era l’insegna del «Villino delle Rose», una delle più costose case di tolleranza di Bergamo: il cliente veniva ricevuto fra tappeti, arazzi e velluti e poi fatto salire alle camere del piano di sopra, riccamente arredate.
Il Casino dei Nobili in via XX Settembre. Per un target un pochino più elitario, fatto di carrozze carrozzelle aristocratici e “donzelle”, ricordiamo anche il Casino dei Nobili della Contrada di Prato attivo fino al 1882, oggi via XX Settembre, quello che ha tuttora a fianco un passaggio pubblico, che già allora vedeva il nostro municipio versare una tassa al proprietario proprio per garantirne la fruizione del transito.
Il Paradiso in via Cattaneo. Ma, dato che Bergamo conta tre anime (Alta, Bassa e Colli) anche gli abitanti dei Colli avevano la loro casa di tolleranza a due passi dal proprio uscio. Vantavano – si bisbiglia – anche loro Il Paradiso. Sì, proprio la residenza che oggi è un pio seminario maschile!
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Storia di Bergamo a luci rosse: con la Legge Merlin finì la prostituzione?
La prostituzione legalizzata terminò infatti con l’entrata in vigore della Legge Merlin il 20 febbraio 1958 che obbligò le tenutarie e chiudere le case e liberare le ragazze. Ma la storia di Bergamo a luci rossi non finì: il veto infatti non limitò la professione, ma la portò in strada come successo in tutto il resto d’Italia. A Bergamo, le donne dapprima si appostarono nei pressi della casermetta di S. Agostino presso il parco sulle mura (luogo calpestato anche dalla mitica e compianta “Lupa”), poi via via in Bergamo bassa all’esterno del mercato ortofrutticolo in fondo a Via Paleocapa).
La distruzione dell’archivio del Gabinetto della Prefettura, conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo, ha eliminato le informazioni relative a iscrizioni, visite, cambi di residenza, contravvenzioni e anche richieste di abbandono della professione. Il ravvedimento era sempre possibile.
La legge Merlin: cos’è e quali furono i punti fondamentali
Il disegno di legge, in realtà, era già stato presentato dieci anni prima, nel 1948, dalla senatrice socialista Angelina Merlin, ma era stato oggetto di grande dibattito e di un lungo iter parlamentare che permise una sua prima approvazione solo nel 1952. A causa della fine del mandato della senatrice la proposta non divenne legge, ma nel 1953 la Merlin venne rieletta e ripresentò il disegno di legge, che finalmente terminò il suo iter parlamentare il 20 febbraio 1958. Alla mezzanotte di quello stesso giorno, in Italia, vennero chiusi 560 bordelli che ospitavano quasi 3mila prostitute.
La legge, creata per difendere la dignità delle donne e tuttora in vigore, prevede la punizione dello sfruttamento (lenocinio), l’induzione e il favoreggiamento della prostituzione, senza però condannare singolarmente i clienti e le prostitute in sé. Gli ultimi articoli della legge, inoltre, prevedevano l’apertura di istituti di rieducazione dedicati alle prostitute che decidevano di lasciare quell’occupazione; e l’istituzione del primo corpo speciale di polizia femminile in Italia.
Dopo l’approvazione della legge, nel 1963 si aprì un dibattito sulla legittimità costituzionale della legge, che venne nuovamente giudicata correttamente formulata. Ma a partire dagli anni ’80, a causa dell’aumento dell’immigrazione, della tratta delle minorenni, della prostituzione in strada e dello sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali, sono state presentate numerose richieste di abrogazione o, almeno, di modifica.
Note: le foto sono in parte mie e in parte recuperate in rete. Le informazioni sulla storia di Bergamo a Luci Rosse sono in parte di Tosca Rossi, guida turistica di Bergamo che ha fatto una ricerca negli archivi cittadini e di Daniele Quarenghi che ha scritto la propria tesi di laurea raccontando proprio il Red Light bergamasco.
La legge Merlin è del 20 febbraio 1958 ma la sua entrata in vigore è il 20 settembre 1958, è infatti questo il giorno della chiusura delle case. Non cambia molto, ma un vecchio avvocato mi raccontò che aveva trascorso tutta la settimana prima del 20 settembre in “buona compagnia” e quella data la ricordava bene.
Ahahahah. Grazie. Integrerò l’informazione.