Covid e pandemie nella letteratura

Il Covid nella poesia Bergamo di Carlo Rey Lacsamana e le altre pandemie in letteratura

Bergamo di Carlo Rey Lacsamana, poeta filippino che vive a Lucca è la poesia che ci racconta come abbiamo vissuto lo scorso anno i primi mesi della pandemia. Ha scritto questi versi raccontando quello che stava attraversando la nostra città, quando Bergamo pagava il tributo più alto in vite umane e quando i camion portavano via le bare verso i crematori di tutto il Nord Italia. L’ho trovata on line nella traduzione di Roberto Pizzi e ve la ripropongo. E partendo da questa poesia ho deciso di ripercorrere attraverso l’opera di grandi letterati la storia delle più note pandemie che hanno funestato il mondo nei secoli. Da Susan Sontag a Tucidide, passando per Manzoni, Boccaccio, Procopio Lucrezio: un viaggio fra le più autorevoli testimonianze delle pandemie.

Il COVID-19 a Bergamo nei versi di Carlo Rey Lacsamana

Ecco i versi della poesia di Carlo Rey Lacsamana. Sono commoventi e tutti i bergamaschi potranno riconoscersi e rivivere quei momenti che speriamo non tornino più. La poesia non è separata dalla vita, riguarda tutto e tutti e, spesso, parla di difficoltà, di inciampi, di cadute e ci obbliga a ricordare, a non lasciare scorrere gli istanti, ma a viverli.

Nelle giornate forse più buie del nuovo Millennio, la poesia ancora una volta può essere riferimento di “bellezza” per ispirare donne e uomini intorno alla vita, alle sue seduzioni, alle sue dolcezze e asperità, spesso alle sue contraddizioni.

Bergamo

Di notte i morti abbandonano la città senza lasciare traccia,
come ombre, non accompagnati, nessuno zaino sulle spalle,
nessuna lettera nel taschino della giacca, sfilano via intatti,
invisibili, nessuno conosce i loro nomi come nessuno sa
i nomi di coloro che caddero durante la guerra.
Solo il nome della città ondeggia come il drappo bianco della resa,
arruffandoci i capelli di noi solitari su una roccia in alto.
Niente cerimonie, niente lamentazioni, niente fiori
a diffondere il loro odore, nessuna orma dei soldati che marciano
nella densità dell’oblio.
E i lampioni tengono le loro candele verso il cielo,
i cani ululano per l’assenza dei loro padroni,
sciocche bandiere di “andrà tutto bene” svolazzano come bende
nella ferita aperta della notte,
il vento cammina lungo il viale deserto gridando
le notizie di domani.

Ecco come la storia ci accoglie: con una mascherina
e guanti, coi vestiti di bianco lattice, che riempiono le nostre
tasche di smarrimento e di distacco.
E noi, nei nostri vestiti della domenica, arriviamo tardi e impreparati,
storditi e smemorati, le nostre bocche si aprono per chiedere acqua:
la sete di ciò che non capiamo è profonda come le radici stanche della terra.
C’è un modo per imparare la storia senza tagliarci le dita?

Noi testimoni, in piedi sul balcone,
seduti di fronte allo schermo, guardando la lenta processione
di camion militari che si arrampicano al chiaro di luna,
accenderemo la nostra candela, quella che continuiamo a smarrire
e che raramente troviamo nel cassetto dei nostri anni non esaminati,
l’unica candela che ci aiuterà a trovare il filo che ci lega agli altri.
Nessuno sa chi resta e chi parte,
la nostra vita in punta di piedi sull’orlo della scomparsa,
lascia che i nostri polmoni si riempiano del ricordo dei morti,
impara ad assemblare il puzzle dei nostri giorni nell’oscurità,
impara a prendere ogni respiro come ultimo atto di desiderio.

Ci conceda Dio una lingua per nominare il nostro dolore,
ci conceda una grazia pari alla nostra perdita:
la morte è più eloquente con il suo ronzio nelle costole,
sopra i tetti delle città, mentre le stelle rendono il nostro
pianto senza risposta:
ci rimangono solo preghiere come se fossero risposte,
ci rimangono le ombre che seguono il tuo silenzio,
con la fame che segue il tuo sonno.

Mentre il dolore ritarda le foglie sui loro rami
ed i nomi restano sulle labbra,
i morti stanno portando il primo cesto di fiori
sul davanzale della finestra: una fetta di calore,
un rametto di speranza, un tocco di brezza che ricorda un bacio,
un nastro di assenza, una piccola vittoria sulla nostra morte.
Dopo questa guerra silenziosa, dopo questa leggera prigionia,
ricorderemo i saluti fugaci attraverso le finestre,
le canzoni sui balconi, i pasti condivisi, le code dentro
i supermercati, l’insonnia di medici e di infermieri,
la chiamata della sirena per il miracolo della vita.
All’alba, prima che il caffè del mattino esca sul balcone,
stringi un frammento della città nel tuo pugno,
piangi per la bellezza della primavera,
offri una preghiera.
Ancora una volta ricominceremo.

Leggi anche: Bèrghem Mola Mia e Bergamo #staystrong fanno il giro del mondo, con la preghiera laica dedicata ai bergamaschi.

Chi è Carlo Rey Lacsamana

Carlo Rey Lacsamana è un giovane poeta nato e cresciuto a Manila, nelle Filippine, e lucchese dal 2005. Scrive regolarmente contenuti politici, culturali e artistici per giornali filippini e collabora con riviste accademiche toscane. Alcuni dei suoi articoli e poesie sono state pubblicati in riviste in US, Canada, UK, India e Messico.
Lo trovate su Twitter e sul suo sito internet

Le pandemie più famose raccontate dai grandi della letteratura

La letteratura e la poesia sono, da sempre, un formidabile strumento di trasmissione della memoria storica. Ed è proprio grazie a poeti e letterati se, oggi, conserviamo le testimonianze (talvolta dirette, talvolta indirette) degli eventi più importanti della storia dell’umanità, tra i quali sono comprese – purtroppo – molte epidemie e pandemie. Ripercorrendo quelle più tristemente famose in ordine cronologico dal più recente al più antico ci affidiamo a quegli autori che grazie al loro racconto ce ne hanno offerto un quadro sorprendentemente preciso e dettagliato.


L’HIV/AIDS raccontata da
Susan Sontag

aids

Era il 1981 quando, negli Stati Uniti, alcuni pazienti manifestarono i primi sintomi di quella che sarebbe poi stata riconosciuta come una “nuova malattia”: la sindrome da immunodeficienza acquisita, o Aids, causata dal virus Hiv (Human Immunodeficiency Virus). Si diffuse rapidamente in tutto il mondo, divenendo ben presto una pandemia – per l’Oms, è tutt’oggi in atto -; ma, al contrario di tutte quelle sino ad allora conosciute, ebbe per molto tempo una percentuale di mortalità drammaticamente vicina al 100%. Inoltre, una volta individuata la sua correlazione con l’attività sessuale e l’uso di droghe (l’eroina), divenne sin dagli inizi oggetto di una pesante stigmatizzazione sociale: ancora oggi, purtroppo, in alcune parti del mondo, si è reso necessario l’intervento di specifiche norme legislative per porre un freno alla discriminazione sociale che l’essere sieropositivi può comportare.

A raccontarci l’impatto che la malattia – che fu talvolta additata come “cancro gay”, a dimostrazione dell’idea totalmente errata e assolutamente discriminatoria che se ne aveva all’epoca – ebbe sull’immaginario collettivo è una gigante della letteratura americana contemporanea, Susan Sontag: in L’Aids e le sue metafore, infatti, l’autrice spiega come la paura dell’Aids rafforzò la cultura dell’individualismo e dell’isolamento, modificando mentalità e comportamenti dell’intera comunità globale.


La peste del 1630 raccontata da Alessandro Manzoni

Peste manzoniana

Nel XVII secolo la peste arrivò a terrorizzare l’Italia: il morbo si diffuse, infatti, nel settentrione (e soprattutto nel Ducato di Milano), uccidendo circa un milione di persone fra il 1629 ed il 1633. Alessandro Manzoni che, sia ne I Promessi Sposi sia nel saggio storico Storia della colonna infame narra della peste che colpì Milano nel 1630: essa si affaccia nella storia dell’umanità con tutta la furia della morte e della malattia che colpisce gli uomini nel fisico e nell’anima. Pur non essendo mai stata classificata come una pandemia – vista la sua contenuta espansione geografica, che arrivò però ad interessare anche il Granducato di Toscana e la Svizzera -, merita d’essere menzionata in quest’elenco per la celebre descrizione del Manzoni.

“Ma sul finire del mese di marzo – si legge nel XXXI capitolo de I promessi sposi -, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi”.

La peste manzoniana

Non è un caso, infatti, che la malattia sia passata alla storia col nome di “peste manzoniana”: pur non essendone – ovviamente – un testimone oculare (Manzoni è nato nel 1785), l’autore milanese, servendosi di archivi e documenti dell’epoca, riuscì a ricostruire con straordinaria aderenza storica il diffondersi del morbo. I promessi sposi, ambientato fra il 1628 ed il 1630 proprio in Lombardia, è infatti universalmente considerato il primo esempio romanzo storico della nostra letteratura, oltre che l’opera più rappresentativa del romanticismo italiano.

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia» (cap. XXXI de I Promessi Sposi).

Leggete anche: Leggere Un Filo di Seta, il racconto ambientato nel complesso di San Nicola ad Almenno San Salvatore al tempo della peste. E non solo. 

Famolo strano (macabro): itinerario tra gli scheletri dipinti che si trovano a Bergamo e in provincia


La peste nera raccontata da Boccaccio

Boccaccio

La peste nera che straziò l’Europa arrivò in Italia intorno al 1348. La malattia, proveniente dalla Cina, si diffuse ben presto in ogni angolo del nostro continente, uccidendone almeno un terzo della popolazione. Fu debellata solo nel 1353. A raccontarcene – meglio di chiunque altro avrebbe potuto fare – gli effetti sulla società del tempo è, com’è noto, il grande Giovanni Boccaccio: testimone oculare del diffondersi della malattia, infatti, nel suo Decameron (composto, pare, proprio fra il 1349 ed il 1353) il poeta fiorentino narra la storia di dieci giovani che decidono di allontanarsi da Firenze per dieci giorni, nella speranza di sfuggire al contagio.

E così, per tenersi compagnia, decidono di raccontare, a turno, dieci novelle ogni giorno, prestabilendo un tema a cui attenersi: è, questo, un disperato tentativo di mantenere intatto quel mondo in cui i giovani erano vissuti sino a quel momento, e che la peste stava spazzando via con sorprendente violenza. Boccaccio, però, non chiamerà mai la peste col suo nome: servendosi di numerose perifrasi (come “mortifera pestilenza”), riuscirà tuttavia a restituircene un’immagine incredibilmente accurata.

Il Morbo di Giustiniano raccontato da Procopio

La peste di Giustiniano

Quella che si abbatté sull’Impero bizantino – e, soprattutto, sulla sua capitale Costantinopoli – tra il 541 e il 542 d.C. fu una pandemia di peste bubbonica causata dallo stesso batterio che, nel XIV secolo, avrebbe messo in ginocchio l’Europa intera. Procopio, storico bizantino vissuto fra il V ed il VI secolo, racconta di come, al suo culmine, la malattia uccidesse ben 100mila persone al giorno nella sola Costantinopoli: questo numero, forse un po’ gonfiato dalle circostanze di panico ed allarme diffusi (oggi gli studiosi parlano piuttosto di circa 5000 decessi al giorno), è però indicativo della percezione – e dell’immensa paura – che i contemporanei ebbero della pandemia. Questa, infatti, uccise il 40% della popolazione della capitale bizantina, costituendo una tragedia senza precedenti.

Il cosiddetto “morbo di Giustiniano”, poi, ebbe pesanti conseguenze anche sulla guerra gotica (535-553 d.C.), permettendo agli Ostrogoti di occupare la penisola italiana, già travolta dalla malattia. Secondo lo stesso Procopio, infatti, nel 546 d.C. la città di Roma rimase quasi priva di abitanti per alcuni mesi: e questo perché Totila, re degli Ostrogoti, decise di deportare in Campania i – pochi – cittadini sopravvissuti alla peste.

La peste di Atene raccontata da Tucidide e Lucrezio

“[…] la peste si manifestò per la prima volta agli Ateniesi: nonostante si dicesse che, in passato, questa si fosse già abbattuta su altre zone, in nessun luogo si ricordava una simile pestilenza né una così grande strage di persone. I medici, infatti, non solo non erano in grado di curare il male per mancanza di conoscenze, ma essi stessi morivano perché si accostavano ai malati; e il rivolgere preghiere e suppliche ai luoghi sacri o agli oracoli fu del tutto inutile, tant’è che, alla fine, desistettero, vinti dal male”.

Così Tucidide, il celebre storico greco vissuto nel V secolo a.C., iniziava a raccontare la “peste” che nel 430 a.C. colpì la città-stato di Atene. E’, questa, la prima grande pandemia di cui la storia abbia conservato memoria, anche e soprattutto grazie alla testimonianza dell’autore ateniese. Su cosa fosse di preciso questa “peste”, però, gli studiosi sono a tutt’oggi divisi: i sintomi, che Tucidide descrive dettagliatamente nel secondo libro della sua Guerra del Peloponneso, sono infatti riconducibili al vaiolo, ma anche al tifo e al morbillo.

A prendere ispirazione dal racconto di Tucidide sarà poi un altro grande esponente della letteratura classica, il romano Lucrezio, vissuto nel I secolo a.C. e autore del rivoluzionario De rerum natura, in cui descrive la peste che colpì Atene come “un morbo e flusso mortifero che sparse i campi di cadaveri, devastò le strade e vuotò la città di abitanti”.

 

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