Se i Presìdi Slow Food italiani sono 250 e coinvolgono oltre 1.600 piccoli produttori tra contadini, pescatori, norcini, pastori, casari, fornai e pasticceri, 6 sono i presìdi Slow Food bergamaschi che dobbiamo assolutamente conoscere. Per questo, per la serie degli itinerari bergamaschi Famolo Strano ho deciso di portarvi nei 6 luoghi che vantano delle eccellenze della gastronomia da provare assolutamente. Ecco quindi tutti i presidi Slow Food Bergamo (in ordine alfabetico) con qualche consiglio turistico se volete saperne di più sulla zona di produzione.
Prima di cominciare, mi pare giusto fare una premessa. Sapete tutti cosa sono i presidi slow food?
Sono comunità raggruppate sotto l’egida di Slow Food che lavorano ogni giorno per salvare dall’estinzione razze autoctone, varietà di ortaggi e di frutta, pani, formaggi, salumi, dolci tradizionali… Si impegnano per tramandare tecniche di produzione e mestieri. Si prendono cura dell’ambiente. Valorizzano paesaggi, territori, culture.
Ecco quello che troverete in questo articolo
Agrì di Valtorta
Valtorta è un piccolo centro della Val Brembana di circa 300 abitanti dove ancora resiste una tradizione casearia unica: qui, nella locale latteria cooperativa, ma anche nelle case, si produce l’Agrì. Un piccolo formaggio cilindrico di latte vaccino intero a pasta cruda la cui particolarità è data dalla tecnica di produzione che richiede tre giorni di lavorazione e una speciale manualità da parte del casaro.
Un tempo, quando da Valtorta i collegamenti con il fondovalle erano tutt’altro che agevoli, le donne di Valtorta impastavano quella che veniva chiamata “pasta di agro” e la portavano a piedi sui sentieri della montagna dentro gerle e fagotti fino alla vicina Valsassina dove si lavoravano poi i formaggi. Oggi se vi recate a Valtorta, potete vedere la latteria cooperativa che si trova proprio sulla piazza del piccolo paese dove si produce il formaggio e potete assistere alle fasi di lavorazione.
Se volete saperne di più su Valtorta, ecco un paio di articoli per una gita fuoriporta:
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Come si produce l’Agrì di Valtorta
Dopo una coagulazione acida del latte crudo ottenuta grazie all’innesto con un poco di siero acido conservato dalla lavorazione precedente e l’aggiunta di un poco di caglio, si lascia riposare nel bacile coperto da un telo.
Dopo una giornata si fa sgrondare la massa in teli di lino appesi per un altro giorno. Il terzo giorno si mette in fascere da ricotta e si lascia ancora 24 ore. Quindi si impasta la cagliata, dall’acidità ormai altissima, con un poco di sale, la si manipola fino a formare dei cilindri di tre centimetri di diametro e di circa 50 grammi e posti ad asciugare alcuni giorni. L’Agrì si consuma tra gli 8 e i 15 giorni.
L’Agrì è un formaggio dal sapore dolce, aromatico e dal profumo delicato. La pasta è bianca e morbida nel formaggio fresco, ma diviene più compatta in quello stagionato ed è sempre priva di occhiatura. La crosta, assente nel prodotto fresco, con la stagionatura si trasforma, assumendo un colore variabile dal giallo al grigio.
Slow Food Bergamo: il presidio degli Agrì di Valtorta
Fino al dopoguerra gli allevatori locali erano una quarantina e producevano in casa i piccoli Agrì, poi con l’industrializzazione delle aree intorno a Bergamo, poco alla volta, tutto è cambiato. Oggi nella vallata di Valtorta ci sono ancora 12 piccoli allevatori (ognuno possiede 10, 12 vacche) che non producono più in casa – se non per autoconsumo – e conferiscono il latte crudo alla piccola cooperativa del paese.
Abramo Milesi, il casaro storico della cooperativa, ha gestito la produzione per oltre quarant’anni e ha tramandato al figlio e agli altri casari l’arte di lavorare l’Agrì, lo Stracchino e il Formai de mut.
Il Presidio conta un unico laboratorio di produzione, la cooperativa di Valtorta, che si trova proprio sulla piazza del piccolo paese. Al di là della salvaguardia di un formaggio storico e di una tecnica particolarissima di lavorazione, il Presidio ha una funzione sociale importante: se non potessero più conferire alla cooperativa il latte dello loro vacche, i 12 piccoli allevatori locali sarebbero costretti a chiudere.
La Capra orobica
Allevata un tempo da ogni famiglia, oggi la capra orobica popola i pascoli delle alpi orobiche e delle aree alpine e prealpine nelle provincie di Sondrio, Bergamo e Lecco.
La capra orobica ha corna imponenti che si torcono verso i lati, pelo lungo e mantello dai colori più svariati (grigio, beige, nero, marrone o pezzato) con prevalenza di nero-grigio nella parte posteriore e bianco-beige in quella anteriore.
La storia di questa razza non è sicura, ma l’ipotesi più accreditata è che sia originaria della Val Gerola, in provincia di Sondrio. L’isolamento geografico di questa zona ha favorito, nel tempo, la sua diversificazione rispetto ad altre razze caprine e la sua rusticità le ha permesso di adattarsi bene ai pascoli impervi di queste montagne.
Se volete fare un giro in estate negli alpeggi dove pascolano le capre orobiche, ecco un suggerimento carino: Trekking per famiglie| Al Passo del Verrobbio in Alta Val Brembana camminare fra le trincee della Grande Guerra.
Cosa si produce con la capra orobica
È una razza a duplice attitudine. Con il latte si producono formaggi a latte crudo tradizionali come il formagìn della Valsassina (un piccolo cilindro dalla pasta leggermente acidificata che si consuma dopo tre giorni), il matuscin della Valtellina (un cilindro appiattito, a coagulazione presamica, dalla stagionatura minima di un mese) e la roviola della Val Brembana (a forma di parallelepido e prodotto con la tecnica dello stracchino).
Si consuma anche la carne, utilizzando in particolare le capre a fine carriera per la produzione di salumi, tra cui il classico violino.
Slow Food Bergamo: il presidio della Capra Orobica
L’introduzione sul mercato di razze caprine maggiormente più produttive (sia di carne sia di latte) negli ultimi decenni ha drasticamente ridotto il numero dei capi di orobica. Molti allevatori, inoltre, hanno poi abbandonato il loro mestiere lasciando incolte e incustodite anche le zone di pascolo.
Il Presidio coinvolge i pochi allevatori che, seguendo il metodo di allevamento tradizionale, prevedono il pascolo primaverile-autunnale, l’alpeggio estivo e la possibilità per gli animali di accedere a spazi aperti nel periodo invernale.
Molti di loro, nella stagione dell’alpeggio, recuperano anche le capre delle famiglie della zona e conducono questo gregge comune sui pascoli.
L’obiettivo del progetto è far crescere il numero di allevatori, perché grazie al loro lavoro sarà possibile salvare una razza dall’estinzione e mantenere i pascoli montani.
Il Melone di Calvenzano
Calvenzano è un piccolo paese della Bassa Bergamasca, noto per una varietà di melone, studiato e censito nella banca del germoplasma per la tutela della biodiversità dell’Università di Valencia.
Il melone di Calvenzano è un melone dalla buccia retata, omogenea e molto fitta, con picciolo piuttosto pronunciato che viene lasciato attaccato al frutto durante la raccolta. Raggiunge anche grandi dimensioni, con un peso che varia da 2 a 6 kg e una forma ovoidale. La polpa è consistente, zuccherina, con un bel colore arancione caldo e molto profumata.
La raccolta avviene nel mese di luglio con un picco produttivo che dura 10-15 giorni. Per il suo grado zuccherino non eccessivo ha subìto la concorrenza delle varietà di melone moderne che sono state appunto selezionate per ottenere frutti sempre più dolci, con un periodo di raccolta più lungo e quindi commercialmente più appetibile.
Storia del Melone di Calvenzano
La sua coltivazione è stata portata avanti negli anni dalla storica Cooperativa agricola di Calvenzano, fondata nel 1887 e terza in Italia per ordine di fondazione.
Il melone risulta nei suoi libri contabili fin dal secolo scorso e secondo le testimonianze orali dei soci più anziani aveva un’importanza fondamentale nell’economia della zona dato che i contadini riuscivano a trarre dalla sua coltivazione il denaro per acquistare i terreni che lavoravano. Nel secolo scorso raggiunse addirittura una fama internazionale: nella Belle Époque i meloni partivano da questo piccolo centro della Bassa Bergamasca diretti ai migliori ristoranti parigini. Negli anni Trenta era consegnato anche presso la residenza estiva dei reali d’Inghilterra e la cooperativa, secondo le testimonianze di alcuni soci, ricevette dalla famiglia reale inglese un certificato di apprezzamento.
Se volete scoprire una chicca su Calvenzano, ecco un gioiello che vale la pena di visitare:
La Madonna dei Campi di Calvenzano, piccola gemma bergamasca che celebra l’universo femminile
Slow Food Bergamo: il presidio del Melone di Calvenzano
La produzione di Calvenzano non può mettersi a confronto con le quantità prodotte da altri colossi della zona, in primis le aziende mantovane, che sono tra le più importanti del Paese per la produzione di meloni a polpa arancione. Ma dal 2002 i soci della Cooperativa agricola di Calvenzano hanno ripreso a seminarlo: le prime sei piantine sono state recuperate grazie a un agricoltore che ne aveva tenuto qualche seme, ma oggi le piante sono centinaia e producono qualche decina di quintali di meloni.
Con il Presidio la produzione si è allargata coinvolgendo altri tre contadini della zona che hanno seminato il melone storico locale utilizzando il seme fornito dalla Cooperativa e che andranno ad aumentare ulteriormente la produzione di melone fresco. Una parte della produzione inoltre sarà trasformata in confetture e liquori.
La sardina essiccata del Lago d’Iseo
Conosciuta localmente come “sardina” è in realtà un agone (Alosa agone, syn. Alosa fallax lacustris) ma è chiamata sardina per la sua particolare forma, simile a quella del noto pesce marino.
Ha un corpo allungato e piatto con un dorso verdastro e macchie nere, fianchi e ventre chiari e una pinna dorsale molto breve; gli esemplari più comuni raggiungono una lunghezza di venti centimetri.
La pesca si pratica tutto l’anno, tranne nei mesi primaverili della riproduzione, ma raggiunge il culmine da novembre a marzo. I pescatori del lago di Iseo escono al tramonto e posizionano le reti di profondità, le sardenere, in mezzo al lago, ad almeno 200 metri dalla riva, ancorandole alle apposite boe. All’alba ritornano e le issano.
Come si preparano le sardine di lago essiccate
Subito dopo essere state pescate, le sardine (o agoni, per essere più precisi) vengono eviscerate praticando un’incisione nella pancia oppure facendo defluire le interiora attraverso un foro praticato appena sotto la testa. Successivamente le sardine sono lavate in acqua corrente e lasciate per almeno 48 ore sotto sale.
Dopo questo breve periodo di salatura sono poste a essiccare al sole e all’aria del lago per circa trenta o quaranta giorni. Per essiccare gli agoni si utilizzavano in passato rami di frassino o carpino, piegati ad arco e tenuti in posizione da fili tesi legati alle estremità: le sardine si infilavano, una ad una, in questi fili. Si chiamavano archèc in dialetto locale. Questa operazione era fatta solo nel periodo invernale, per evitare il caldo, che avrebbe deteriorato il pesce, e anche per scongiurare l’attacco degli insetti, soprattutto delle mosche. A volte gli archec erano collocati sulle stesse barche dei pescatori. Le strutture di essiccazione oggi si sono evolute, sono più grandi e sono poste su appositi terrazzi ombreggiati. Il pesce viene inchiodato per la testa ai gancetti presenti sulle assicelle di legno che compongono le intelaiature, a file parallele.
Dopo l’essiccazione sono disposte in modo concentrico in contenitori di acciaio, oppure in legno, come era in passato, e sono pressate con un peso, o torchiate, per far uscire il grasso, che viene subito eliminato. Dopo questa operazione si ricoprono le sardine con olio di oliva. Si conservano per alcuni mesi, ma durano anche fino a due anni, avendo cura di cambiare l’olio dopo 9 o 10 mesi. Dopo qualche mese di maturazione le sardine diventano dorate e si possono mangiare dopo averle cotte, per pochi minuti, sulla brace ardente. Sono quindi condite con olio, prezzemolo e aglio e servite con polenta: il piatto più tradizionale del lago, dal sapore intenso e particolare.
Slow Food Bergamo: il presidio della Sardina di Lago
Il Presidio si propone di valorizzare l’antica tecnica di essiccazione e conservazione e promuove la produzione locale, differenziandola da quella di altra provenienza. Questo metodo di conservazione è stato messo a punto nel tempo dai pescatori del lago d’Iseo per conservare a lungo le sardine che, in alcuni periodi dell’anno, erano pescate in grandi quantità. Secondo la tradizione orale, questa tecnica risalirebbe ad almeno mille anni fa, quando i pescatori della piscaria di Iseo ogni anno dovevano consegnare una precisa quantità di pesce essiccato al monastero di Santa Giulia di Brescia.
I pescatori provenivano in particolare da Monte Isola, un’isola molto grande del lago d’Iseo. Nel tempo in questo piccolo centro si è sviluppato un artigianato legato alla produzione di reti da pesca e barche di legno (i naét, simili alla gondola). Fino agli anni Settanta del Novecento, Monte Isola era uno dei principali produttori mondiali di reti da pesca, schiacciato in seguito dalla concorrenza dei fabbricanti industriali giapponesi; rimangono ciò nonostante alcuni artigiani, soprattutto nella frazione di Peschiera Maraglio.
Oggi sul lago rimangono pochi pescatori professionisti, il loro lavoro è faticoso e poco redditizio. L’eccessivo prelievo di pesce e la mancanza di un’attività di ripopolamento nel lago d’Iseo fanno sì che il pescato locale sia in costante diminuzione, tanto che si è diffusa una produzione di sardine essiccate fatta con pesce proveniente da altri laghi.
Se volete assaggiare delle ottime sardine di lago essiccate, vi consiglio un passaggio al Ristorante Miranda e una gita a Monte Isola:
Al Miranda, per innamorarsi del Lago d’Iseo, coi piatti della tradizione e con un panorama strepitoso
Gite fuoriporta | Il giro di Monte Isola in bicicletta alla scoperta di uno dei Borghi più belli d’Italia
Lo Storico Ribelle
Il formaggio Storico ribelle, già Bitto Storico, è senza dubbio, uno dei simboli della produzione casearia lombarda: formaggio di grande tradizione e straordinaria attitudine all’invecchiamento, è legato in maniera profonda alle montagne da cui prende origine.
Il nucleo storico della sua produzione si trova nelle valli formate dal torrente da cui prende il nome: Gerola e Albaredo, in provincia di Sondrio. Il formaggio che si produce negli alpeggi di queste valli, a un’altitudine che va dai 1400 ai 2000 metri, conserva caratteristiche speciali.
Come si produce lo Storico Ribelle
I caricatori, infatti, sono impegnati nel mantenimento di tutta una serie di pratiche tradizionali che esaltano la qualità del formaggio, oltre a svolgere un ruolo basilare nella conservazione dell’ambiente e della biodiversità alpina. Innanzitutto, si pratica il pascolo turnato: nei tre mesi di alpeggio, la mandria è condotta attraverso un percorso a tappe, che va dalla stazione più bassa a quella più alta.
Lungo la via, i tradizionali calècc – millenarie costruzioni in pietra che proteggono la zona di caseificazione- fungono da baita di lavorazione itinerante, sempre a portata di mano, in modo che il latte non debba viaggiare, se non per pochi metri, e possa essere lavorato prima che il suo calore naturale si disperda.
Un’altra pratica, promossa dai produttori storici, è la monticazione, insieme alla mandria bovina, delle capre Orobiche. Il latte di questi animali entra per un 10, 20% nella produzione del formaggio e gli conferisce una speciale aromaticità e persistenza. Per assicurare il massimo controllo delle condizioni sanitarie del bestiame, i monticatori mungono solo a mano. La salatura del formaggio avviene preferibilmente a secco; in questo modo si forma una crosta più delicata, garanzia di una migliore maturazione. E’inoltre espressamente vietato l’uso di integratori nell’alimentazione dei bovini e l’uso di additivi, conservanti o fermenti selezionati nella produzione del formaggio.
Cosa si prepara e come si mangia lo Storico Ribelle
Questo formaggio entra come ingrediente fondamentale, assieme al burro, al grano saraceno e alle verze nella composizione del piatto simbolo della Valtellina, i pizzoccheri. Un trionfo dei sapori della montagna, una bomba calorica che si può metabolizzare soltanto se la ricetta fa parte del DNA personale o se si scalano quelle stesse montagne da cui ha origine.
Ma sarebbe ingiusto relegare uno dei più nobili formaggi italiani al rango di condimento: lo Storico Ribelle, giustamente stagionato è straordinario da tavola, e quando poi si prolunga l’affinamento per 6, 7 anni o più, diventa uno dei rarissimi formaggi da meditazione del mondo.
Slow Food Bergamo: il presidio dello Storico Ribelle
Questo presidio nasce per valorizzare la produzione d’alpeggio ottenuta nell’area storica: le Valli di Albaredo e Gerola. Le pratiche portate avanti dagli aderenti al Presidio, se da un lato hanno un effetto positivo sia sulla qualità del formaggio sia sull’ambiente, dall’altro, comportano un deciso aumento delle energie e delle risorse impiegate. E’ necessario che questa situazione sia riconosciuta anche dal mercato, e che i produttori ricevano la giusta remunerazione per il loro fondamentale lavoro di conservazione del territorio. L’ambiente montano degli alpeggi, infatti, una volta abbandonato, si degrada e il recupero in pochi anni diventa praticamente impossibile.
Solo le forme giudicate di eccezionale qualità e quindi adatte a un particolare invecchiamento, sono riconosciute prodotto del Presidio Slow Food Bergamo.
Se volete approfondire, vi invito a guardare questo interessante video
Lo Stracchino all’Antica delle Alpi Orobie
Il nome stracchino pare derivare dalla voce dialettale stracch, stanco, ed è riferito a quel cacio che si produceva un tempo nei momenti di sosta lungo i percorsi di transumanza dalla pianura agli alpeggi e viceversa, con il poco latte di animali “stracchi” per il viaggio. Doveva essere un prodotto veloce da preparare, senza dover scaldare il latte e senza tempi lunghi di coagulazione e di spurgo.
Un nome, documentato sin dal 1200, di questo formaggio era stracchino quartirolo, ma questa non è che una delle numerose varianti: anche il gorgonzola nasce da quella base casearia. Uno di questi stracchini, quello prodotto in Val Taleggio, godeva di un prestigio particolare e così, a partire dai primi anni del ‘900, si cominciò a chiamare Taleggio tutti i formaggi di quella tipologia.
Oggi anche il Taleggio è di fatto un formaggio industriale, protetto da una Dop e per identificare una produzione artigianale, di montagna, di formaggi simili, che fortunatamente ancora esiste, si deve tornare ad utilizzare l’antico termine stracchino. Ecco allora nascere il Presidio dello stracchino all’antica delle Valli Orobiche, che si propone di valorizzare questa eccellente tipologia di formaggi grassi, gustosi, leggermente piccanti che in qualche modo rappresentano gli antenati del Taleggio. Si producono nella Valli Brembana, Taleggio, Serina e Imagna con latte vaccino crudo intero appena munto, per questo sono detti anche “a munta calda”.
Come si produce lo Stracchino all’Antica
Il latte viene inoculato di caglio di vitello e in alcuni casi di latte innesto autoprodotto, dopo la coagulazione, che dura dai 20 ai 40 minuti, si rompe la cagliata in due fasi successive, sino ad ottenere un coagulo abbastanza soffice e grosso per mantenere tenero il formaggio.
Dopo aver versato la pasta nelle fascere inizia la stufatura per un giorno e mezzo a circa 20 gradi con un 90% di umidità, sino a che le forme si ricoprono di una leggera muffa bianca. Grande cura è riservata nel non lasciarli raffreddare, evitando così il fenomeno degli stracchini che “scappano” cioè che perdono la forma quadrangolare, sformandosi.
A questo punto si salano le forme e si collocano in stagionatura, dove acquistano, dopo almeno una ventina di giorni, grazie all’umidità e alla manipolazione, il tipico inconfondibile sapore: un gusto che vira dal suadente cremoso del sottocrosta al pungente del cuore, più compatto e friabile. Mentre al naso freschi sentori balsamici richiamano il verde dei pascoli o le fragranze del fieno.
Slow Food Bergamo: il presidio dello Stracchino all’Antica
Per “stracchino” la maggior parte dei consumatori intende quei panetti di formaggio tenero, umido, di colore bianco traslucido, da consumarsi in fretta, onnipresenti nei menu ospedalieri o nelle case di riposo. Oggi questo stracchino è un prodotto totalmente industriale, che gode, non sempre a proposito, dello status di formaggio digeribile, dolce, poco grasso: uno status che ne ha fatto un bene di larghissimo consumo, ma che ha travisato il significato storico del termine.
La valle Brembana e quelle confluenti di Serina, Taleggio e Imagna conservano ancora una tradizione artigianale di tutti rispetto ma poco nota, eppure qui gli allevatori sono un vero e proprio presidio del territorio: conservano pascoli ricchi di straordinarie essenze foraggere per chi vive in questi piccoli paesi, è importante poter contare su un’occupazione lavorativa alternativa alla fabbrica o all’ufficio nei centri di fondovalle. Per questo è nato il Presidio che riunisce i piccoli allevatori e casari determinati ad affermare la tradizione del vero stracchino delle valli Orobiche.
Itinerario gastronomico: 4 formaggi bergamaschi in un unico piatto e qualche curiosità
Note: le informazioni contenute in questo articolo sono tratte in parte dal sito Slow Food Bergamo
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